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Cosa ci insegna l’architettura «opportuna» di Mendes da Rocha in mostra a Milano.
Meglio giungere alla Triennale dopo una lunga passeggiata tra grattacieli ed edifici della nuova città: si apprezzeranno meglio la precisione tecnica e concettuale dell’architetto brasiliano, la lucidità illuminante di ogni suo schizzo, di ogni sua idea.
di Francesco Napolitano
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Forse non bisogna “andare” alla Triennale a vedere la mostra di Paulo Mendes da Rocha, sarebbe meglio “arrivarci”, che è diverso. L’ideale sarebbe giungere lì dopo una passeggiata possibilmente molto faticosa, senza fretta, augurandoci che il cammino sia lungo ed evitando accuratamente la strada più breve, per raccogliere e portare con noi un gran numero di immagini.
Possiamo ad esempio partire dai cantieri di CityLife e quindi iniziare con le residenze di Zaha Hadid le cui cui accecanti curve bianche ci ricordano le navi da crociera; da quelle strade vediamo in lontananza, al di là di un cratere lasciato dalle fondazioni di un lotto non realizzato, la massa spigolosa delle residenze di Daniel Libeskind, alte quattordici piani, come una diga decorata con sinuosi ordini di balconi. Da lì potremmo facilmente tirare dritto verso la Triennale e invece ci giriamo intorno allungando la strada, e arriviamo a Piazza Gae Aulenti, dove le curve di vetro degli edifici di Cesar Pelli terminano improvvisamente nello strano pinnacolo della torre Unicredit.
Finalmente possiamo dirigerci verso la Triennale con passo veloce; bisogna arrivarci stanchi perché vedere la mostra di Mendes da Rocha è riposante per i nostri occhi.
Se la stravaganza degli edifici che abbiamo visto nella nostra passeggiata ci ha lasciato confusi o perplessi, ebbene in ogni progetto, in ogni linea dell’architetto brasiliano tutto è chiaro, tutto ha senso, nulla è arbitrario. Tra i tanti bellissimi disegni, plastici e fotografie c’è un video che mostra alcune immagini dello studio dell’architetto. È uno studio relativamente piccolo, pieno di chine, compassi, lenti di ingrandimento, taglierini, vecchi ed eleganti strumenti di precisione che non trovano più posto sui tavoli dei progettisti nell’era di Autocad. Ma è proprio questo che colpisce chi si avvicina all’opera del maestro brasiliano: la precisione tecnica e concettuale, la lucidità illuminante di ogni suo schizzo, di ogni sua idea.
Vedere il lavoro di Mendes da Rocha è bello come dimagrire dopo essere stati grassi, pigri e brutti per tantissimo tempo; il suo pensiero ci depura dalle immagini sovrabbondanti che abbiamo accumulato nel nostro cammino e che pesano sulla nostra immaginazione come un fardello.
Ma soprattutto la sua architettura ci svela in modo inequivocabile la mancanza di un significato profondo nelle costruzioni della nuova Milano super capitalista ma oramai in super crisi, come tutta l’Italia. Osservando le case e gli edifici pubblici di Mendes da Rocha o riflettendo su quella che lui stesso chiama la “città per tutti” diventa inevitabile chiedersi che senso abbiano oramai il lusso estremo, il formalismo capriccioso, la tecnologia domotica e la densità delle speculazioni di City Life, nell’epoca della crisi. Un pensiero del maestro brasiliano è stato profetico: «l’architettura contemporanea è essenzialmente il progetto della città, piuttosto che la decorazione di essa con una orrida successione stravaganti artefatti: dobbiamo sciogliere il nodo della schizofrenica separazione dell’architettura dall’urbanistica, dell’arte dalla tecnica, dell’arte dalla scienza». È la mancanza di una vera idea sociale e umana a rendere arbitrarie le forme degli edifici di CityLife e del nuovo centro direzionale; lo spaesamento e la confusione derivano dall’assenza di una visione di insieme pubblica e civile che prescinda, almeno in parte, dagli interessi dei colossi del real estate.
È quasi un ossimoro, o peggio una excusatio non petita, il fatto che che quella piazza tra le torri di vetro, fatta da un architetto americano nella città dell’eleganza e del design italiano, sia intestata a Gae Aulenti. Dopo questa mostra una frase di Paulo Mendes da Rocha ci tornerà in mente nelle nostre passeggiate: «l’Architettura non desidera essere funzionale. L’architettura vuole essere opportuna».