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ARTE E CRITICA #74

 

 

La voce “giovane” dell’architettura italiana

di Gianfranco Toso

 

 

Parola d’ordine del dibattito contemporaneo sull’architettura -e non solo- in Italia , rieccheggia con crescente urgenza il termine “giovane”.

Carenza di lavoro, crisi degli investimenti e del sistema produttivo, delusione, disillusione e in parte forzata amnesia rispetto a figure e tendenze ritenute prima fondamentali hanno portato la generazione degli architetti ora trentenni – anche se il fenomeno è da ascriversi più ampiamente anche a progenie meno recenti formatesi a distanza di pochi anni l’una dall’altra- a desiderare un punto e a capo.
Questa aspirazione, seppur motivata e condivisibile in linea di principio secondo un ideale corso e rinnovamento delle forze lavoro in campo, sembra tuttavia essere compresa dai più come raptus cancellatorio e come tale da controllare.
Si moltiplicano organismi associativi locali e nazionali : i giovani architetti italiani chiedono una chance per dimostrare la loro virtù, ma senza oblio della memoria; chiedono delle occasioni concrete per misurarsi con problemi reali, urgenti.
I “non più giovani”, come si usano definire, riconoscono in quelle dei figli le stesse difficoltà ad emergere dei padri, imputando sostanzialmente all’adolescenziale ed endemico fraintendimento sull’acquisizione della maggiore età la causa di una richiesta così estrema: se loro stessi hanno dovuto aspettare è questo evidentemente il destino.
Che si tratti dunque di una rincorsa, di una guerra di trincea da vincere sulla distanza più che sul tempo?

Senza esperienza dell’architettura non può esservi possibilità di una reale crescita, di sperimentazione, di una costruzione di un sapere, passando anche per la possibilità di commettere errori. Di fronte alla possibilità di crescita che un “giovane” si trova ad avere in altri paesi, almeno questo è il pensiero diffuso, questi è destinato a scontrarsi entro i confini nazionali con un estenuante cammino fatto di imprevisti e casualità, che prescindono spesso dalla sua esperienza; si veda quella peculiare discrasia fra cause ed effetti tipica del nostro sistema istituzionale e burocratico, la diaspora sembra tuttora la soluzione più immediata a queste dinamiche. Tuttavia, più che un “partire, tornare, restare”, come l’esperienza degli italiani all’estero è stata recentemente raccontata in mostra alla Casa dell’Architettura di Roma, sembra essere un partire senza tornare.

A questo si aggiunge la velocità con cui questa generazione è stata abituata a relazionarsi col mondo circostante: quello dell’informazione, delle relazione e del confronto tra individui appartenenti a mondi e colture molto differenti, delle mode e delle abitudini in costante aggiornamento ;  quel sentimento di bulimia diffusa volta ad assimilare immagini e modelli icon la stessa rapidità con la quale si è pronti a dimenticarli.

Si è dunque generata un‘ansia realizzativa, una metodologia di produzione delle idee in forma già conclusa, pronta, confezionata, subito performativa. Non più abituati ad una lenta e ripetuta assimilazione delle cose- come avveniva fino all’avvento della rivoluzione informatica-, ad una ricerca spesso faticosa attraverso materiali e documenti fisici, si cerca oggi di avere una visibilità e di veicolare messaggi senza che di questi il più delle volte si abbia una effettiva consapevolezza. Invece il prodotto che l’architettura genera non è qualcosa da vendere : ha senso aprire gli studi di architettura per fare pubblicità alla merce e agli sponsor dell’evento? Probabilmente no, pur nella sincera qualità di alcuni colleghi.  Ma porta visibilità.

Il senso di queste iniziative dovrebbe essere l’avvicinamento architetti-fruitori per una effettiva comprensione da parte dei primi delle reali esigenze e necessità degli altri e, per i secondi, di come la visione di chi ha fatto del miglioramento dell’abitare un mestiere può obbiettivamente migliorare l’ambiente in cui vivono, dagli interni delle case al disegno della città.Dovrebbe essere, per chi progetta, l’occasione di creare una rete, oltre che di contatti, anche culturale, nell’individuazione, nella dichiarazione e nella discussione di temi ed interessi comuni, cercando anche possibili e rinnovati connubi tra architettura ed arti.
La richiesta di un ritiro della scene, di una decrescita professionale di chi si trova a combattere da più di trent’anni con una logica clientelare e scarsamente avvezza al cambiamento come quella italiana e che ha avuto solo negli ultimi anni l’occasione di vedere costruiti progetti maturati nel corso di tutta una vita , non è ipotizzabile in una forma immediata.
Può e deve invece instaurarsi n dialogo tra le generazioni. Devono proporsi logiche di condivisione e di scambio. Di fronte al grande numero di figure dello stesso tipo, non può più emergere l’ individualità pena il sacrificio di un enorme forza lavoro, che c’è e deve essere impiegata tutta. Ma questa è una logica che prima deve essere assimilata anche da chi architetto non è. Da chi detiene l’organizzazione delle iniziative e degli investimenti. Da chi si trova alla cura di rassegne nazionali ed internazionali, che dovrebbero dare spazio maggiore alle leve nascenti, come giustamente è stato sottolineato alla Biennale di Architettura per il Padiglione Italia Le quattro stagioni; con la fiducia nel fatto che non sempre la conoscenza approfondita di una realtà e l’anzianità di ruolo offrono le giuste risposte ai problemi e che queste invece il più delle volte provengono dall’esterno, da chi, con la giusta distanza, magari anche anagrafica, ne può cogliere veramente l’essenza.

Da notare positivamente in questo senso il moltiplicarsi di proposte progettuali non bandite o inserite all’interno di piani istituzionali, bensì frutto della conoscenza diretta e delle nuove direzioni che alcuni giovani progettisti riescono ad intercettare rispetto alla vocazione dei luoghi e ai desideri delle comunità locali vivendo con loro a stretto contatto.
L’ autoproduzione senza committenza diretta, modello che rievoca quello dell’ Architettura disegnata degli anni ’70-’80, trova oggi nelle nuove generazioni un terreno fertile.
Presa coscienza del superamento dei problemi di linguaggio che quella stagione portava in sè, gli architetti che la praticano- consapevoli di subire la chiusura definitiva alle pratiche concorsuali rese accessibili con l’introduzione di requisiti economici di partecipazione solo a cordate mercenarie- hanno in mente stavolta il processo.
L’assimilazione stanca degli imput linguistici che piovono dallo scenario globale ha dunque generato un nuovo interesse per la processualità del fare, per la comprensione e per l’ invenzione di dinamiche alternative che possano portare alla nascita del nuovo in architettura.
Al di là di un’ auspicabile Pax Augustea,  gli architetti italiani non devono però illudersi. Come si è visto, come la storia recente e passata insegnano, l’Italia è un paese senza memoria, che parla di novità e non di nuovo, nel quale si alternano le figure, ma la sostanza sembra rimanere la stessa.
Perchè questo cambi, perchè  dall’avvicendamento venga fuori benessere, non basta un rinnovamento generazionale, ne occorre uno culturalmente più profondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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