Un qualunque signor Fritz. La Biennale secondo Francesco Napolitano
Una riflessione su “The 387 Houses of Peter Fritz (1916–1992), Insurance Clerk from Vienna, 1993–2008”. Per intenderci, l’opera che sta nella sala di sinistra appena varcato l’ingresso del Palazzo delle Esposizioni ai Giardini della Biennale. Opera che nessuno o quasi sembra aver notato.
Se un architetto, entrando nel padiglione centrale dei giardini, decidesse di non tirare dritto verso la sala del Libro Rosso di Jung ma provasse a trovare, da vero progettista, un percorso alternativo, ebbene la sua velleità di distinguersi sarebbe in questo caso premiata, perché si troverebbe subito di fronte a una perfetta trasposizione architettonica dell’ansia enciclopedica della mostra di Massimiliano Gioni. Al centro della sala, su un grande tavolo, sono sistemati 176 modellini di svariate tipologie architettoniche, come se fossero tanti giocattoli o piccoli plastici fatti un ragazzino della scuola media particolarmente bravo nel disegno tecnico.
Quell’architetto allora tornerebbe per un attimo bambino e sognerebbe di muovere quei giocattoli dalla griglia sulla quale sono sistemati per comporre una città in miniatura, aggiungendo una bella rotaia e magari un trenino. Ma l’illusione manca: in una sala del padiglione centrale, i modellini sono un’opera d’arte e non si possono toccare.
Questi oggettini sono il lavoro di Peter Fritz, un impiegato di una compagnia assicurativa austriaca che amava usare il proprio tempo libero assemblando plastici delle tipologie edilizie che vedeva, catalogandole attraverso quest’azione; sono l’ossessione di un dilettante, come d’altra parte lo è anche il plastico stesso del Palazzo Enciclopedico, costruito in scala e brevettato dal pensionato Marino Auriti, o come le architetture allegoriche disegnate di sera, dopo una giornata di lavoro, da Achilles G. Rizzoli.
I modellini di Fritz sono stati ritrovati, ognuno avvolto in un sacco dell’immondizia, dall’artista Oliver Croy che, insieme al critico di architettura Oliver Elser, ha deciso di esporli alla Biennale sistemandoli su una tavola che si potrebbe definire, usando le parole del presidente Baratta, “imbandita di una pletora di immagini e visioni per l’uso quotidiano”.
Tre nomi dunque: Croy, Elser, Fritz; il primo un artista, il secondo un critico e il terzo un perfetto sconosciuto. Ma chi è l’autore dell’opera? È difficile rispondere in modo sensato a una domanda che potrebbe essere posta in relazione a tantissime delle opere del Palazzo Enciclopedico e che ha trovato finora una risposta diversa per ogni lavoro. “Sfumando le distinzioni fra artisti dilettanti e professionisti”, Gioni mescola e confonde i ruoli del critico, dell’artista e del dilettante, e facendo ciò offusca il concetto di autore. Questa mostra è in primis l’opera di Massimiliano Gioni, è lui l’autore, l’artista, pur non avendo messo mano a nessuno dei lavori, nella migliore tradizione concettuale. Al contrario del Padiglione Italia, nel quale Pietromarchi ci racconta l’arte italiana con un linguaggio rarefatto ma consolidato, il Palazzo Enciclopedico è spiazzante perché, per la prima volta, il vero protagonista della Biennale è l’hobby, il delirio personale dei dilettanti, che prende il sopravvento sulle precedenti declinazioni del fare arte.
Questa operazione ha dei lati positivi: ad esempio, la visione dei plastici di Fritz ci permette di osservare l’architettura attraverso gli occhi di chi la vuole conoscere pur senza essere alfabetizzato e impone una riflessione (se non un ripensamento) sull’atteggiamento troppo estetizzante, cosmetico e scultoreo di tanta architettura contemporanea. Ma il Palazzo Enciclopedico ha anche un lato oscuro. Il sogno di Massimiliano Gioni sembrerebbe essere quello di mostrarci, ad esempio attraverso le casette selezionate da Croy ed Elser, diverse versioni dell’Aleph, il mitico oggetto raccontato da Borges, dal quale è possibile vedere e quindi conoscere nello stesso istante tutti i luoghi del mondo. Ma queste vertigini possono effettivamente trovare un significato se sono visualizzate da un grande artista, non da un qualunque signor Fritz.
Francesco Napolitano