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DPMAGROMADESIGN – NUOVE FORME D’ARTE

Francesco Napolitano e Simone Lanaro, fondatori dello studio di architettura Lad, raccontano la propria passione per una professione che gli ha regalato grandi soddisfazioni, ultima in ordine di tempo il premio Vocazione Roma per il progetto del riuso del ponte Bailey.

\\ Poesia in forma di architettura o arte che adotta strutture architettoniche per stimolare nuove forme? Lo stesso simbolo dell’eccellenza italiana, il Maestro del design nazionale, eclettico e fecondo che nel tempo ha saputo coniugare alla perfezione classicità e modernità, tradizione e innovazione, Gio Ponti, diceva: “Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte”. E dal concetto di arte mediato al mondo dell’architettura e del design cittadino che Francesco Napolitano e Simone Lanaro hanno fondato lo Studio Lad – Laboratorio di Architettura & Design – mettendo a disposizione la propria creatività e abilità nel coniugare le forme architettoniche in vere e proprie opere d’arte a cielo aperto. \\

Com’è nata l’dea di aprire uno studio come il LAD?

Abbiamo pensato (forse presuntuosamente o forse incoscientemente) di avere qualcosa da dire nel campo dell’architettura e del design, e dopo averlo pensato lo abbiamo messo in pratica. Infondo è stata questa la vera scommessa: puntare su noi stessi. Ora, guardandoci indietro, non credo che avremmo potuto fare diversamente, ma entrambi ci teniamo a sottolineare che la progettazione è prima di tutto una vocazione, e poi una professione; ci vogliono fortuna e grandissima abnegazione affinché diventi un lavoro.

Qual è secondo lei il punto di forza dello Studio?

Il nostro punto di forza è la concretezza. Le nostre idee hanno sempre alla base la comprensione di un meccanismo o di un problema di ordine economico, ambientale o sociale. L’architettura che ne deriva è per noi sempre la soluzione a questo problema o il tentativo di innescare un processo virtuoso, sia sotto il profilo dell’investimento sia dal punto di vista del suo esito architettonico. Non crediamo di essere demiurghi, crediamo di poter risolvere problemi e creare opportunità.

Quali sono le difficoltà e gli ostacoli più frequenti che si incontrano nella realizzazione di un nuovo progetto?

In Italia gli ostacoli più frequenti sono due: la burocrazia e la cattiva normativa. Il momento progettuale invece è sempre un piacere, non è mai una difficoltà.

Avete recentemente vinto il premio Vocazione Roma per il progetto del riuso del ponte Baily. Come è nata l’idea, in cosa consiste e soprattutto cosa significa per il vostro studio aver ricevuto un simile riconoscimento?

Francesco Napolitano: La nostra è un’idea per rimediare alla situazione di degrado dei piloni del ponte Bailey, che è sotto gli occhi di tutti coloro che a Roma percorrono via di Tor di Quinto, all’altezza della collina Fleming. Nel letto del fiume si ergono tre misteriosi piloni in calcestruzzo armato, che erano in realtà i supporti del vecchio ponte Bailey, smantellato negli anni sessanta. La nostra idea prevede un accordo tra la pubblica amministrazione ed un finanziatore privato che sia pronto ad investire nella demolizione di due dei tre piloni. A fronte di questo sforzo, la amministrazione concede al privato di recuperare il terzo pilone e di riutilizzarlo, posandovi sopra una struttura removibile a sbalzo sul Tevere. Questa piattaforma è una vera e propria piazza pubblica in mezzo al fiume, accessibile a tutti e munita di una struttura polifunzionale coperta sul retro.

Quali materiali verranno utilizzati per la realizzazione del ponte e che importanza ha la scelta dei materiali nella conezione di un nuovo progetto?

Allo stato dell’arte abbiamo pensato ad una struttura in travi di acciaio. Ovviamente nessuno ci vieta, nel momento in cui dovessimo affrontare un livello di progettazione più dettagliato, di ripensarci e di usare il legno lamellare. Per quanto riguarda la “pelle” dell’architettura, i rivestimenti orizzontali e verticali sono in legno, acciaio e vetro.

Nello studio e nella realizzazione di un nuovo progetto quanto è importante  l’dea del “soggetto” scelto e la creatività nella realizzazione dello stesso?

Il tema in realtà è secondario: lavoriamo sull’architettura e sul design, questo significa che dobbiamo saper affrontare allo stesso modo la progettazione del cucchiaio e della città. La creatività invece è centrale: anche se spesso si presenta sotto un aspetto giocoso e divertente, è importante tenerla in grande considerazione perché è ciò che distingue un progettista da un burocrate.

Come è nata l’idea di realizzare l’Olgiata Sporting Club? Il progetto ricade nel Punto Verde Qualità 20.12, opera che rientra negli interventi promossi dal Comune di Roma che riguardano aree verdi insufficientemente attrezzate. Come mai la vostra scelta è ricaduta su un centro sportivo?

Fondamentalmente il progetto è nato dall’idea di inserire un servizio praticamente assente in zona, e corrisponde quindi ad una volontà di colmare una lacuna, anche dal punto di vista sociale. Fra le funzioni compatibili nell’ambito dei Punti Verdi Qualità ci sono ovviamente anche gli impianti sportivi: l’idea dell’Olgiata Sporting Club deriva dalla conoscenza del territorio e dall’aver intuito che un centro sportivo, in quella posizione, avrebbe potuto usufruire di un grande bacino d’utenza.

Se le venisse data carta bianca per la realizzazione di un edificio a Roma cosa farebbe e perché?

Francesco Napolitano: Demolirei due dei piloni dell’ex Ponte Bailey e costruirei sul terzo la mia piazza sospesa e lo farei perché ci credo davvero.

Quali i  futuri?

Abbiamo tante altre idee. Fra qualche mese inaugurerà

il centro sportivo di Tor Sapienza, un progetto sul quale abbiamo investito molto. Abbiamo deciso di utilizzare i mattone faccia vista,   come materiale di rivestimento dei blocchi architettonici: speriamo davvero possa avere lo stesso successo dei precedenti progetti!

Come è nata la sua passione per questo lavoro?

Simone Lanaro: Non saprei dire come è nata, so solo che aumenta giorno per giorno.

Francesco Napolitano: Ricordo che una volta, da ragazzino, un amico che ammiravo e che ammiro tuttora moltissimo stava parlando con grande stima di un tale con il quale aveva avuto uno scambio di opinioni: “E’ una persona meravigliosa” mi diceva “sai… è un architetto”. In quel momento, forse per una specie di proprietà transitiva della stima, o forse per il desiderio di essere io stesso ammirato dal mio amico, pensai per la prima volta che sarei diventato un architetto. La passione per il lavoro e per la professione invece la devo alla mia esperienza in Olanda al T.U. Delft, un’università incredibile.

Qual è il progetto a cui è più legato e perché?

Siamo entrambi sentimentalmente legati allo “Stealth” ovvero l’Olgiata Shopping Plaza, che verrà pubblicato a Febbraio nel volume Linea Giarch curato dalla Utet, che raccoglie le opere dei giovani studi di architettura italiani emergenti. È stata la nostra prima vera realizzazione, e rimarrà la più emozionante.

Dal punto di vista architettonico cosa manca a Roma e perché?

A Roma manca l’architettura contemporanea tout court. Ci stiamo adeguando, è vero, ora abbiamo l’Ara Pacis e la stazione Tiburtina, e proprio negli ultimi due anni abbiamo finalmente avuto anche i musei d’arte contemporanea, il MACRO e il MAXXI, ma non basta. Gli edifici che ho citato sono grandi infrastrutture o importanti lavori firmati dalle archistar internazionali. Ciò che manca davvero è un’architettura contemporanea “normale”, umana, amichevole, diffusa, e soprattutto fatta da giovani professionisti, se è possibile italiani, visto che siamo tutti in crisi.

Roma sta cercando in tutti i modi di sponsorizzare la propria candidatura alle Olimpiadi 2020. Secondo lei, su quali impianti bisognerebbe puntare e se vi fosse data la possibilità di entrare a far parte del progetto cosa proporreste?

Credo che la politica del comitato organizzatore sia corretta: bisogna puntare sugli impianti esistenti. Questo però non deve generare fraintendimenti. Le strutture costruite per le Olimpiadi del 1960 non sono sufficienti per organizzare quelle del 2020; devono essere migliorate e integrate con altre, nuove e moderne. Inoltre, secondo noi, le Olimpiadi devono essere il mezzo attraverso il quale risolvere il problema focale di Roma: la mobilità. Sarebbe interessante, visto che le aree che previste per le Olimpiadi sono tutte a ridosso del Tevere, proporre al Comune il nostro progetto per il recupero dei piloni del ponte Bailey.

Dal punto di vista meramente simbolico, quale invece potrebbe essere l’idea per un progetto artistico e culturale legato alle Olimpiadi?

Simbolicamente è molto importante distaccarsi in termini estetici e immaginifici dalle Olimpiadi del 1960, per una semplice ragione: sono state un grande successo, e sono state il simbolo della nuova Italia del miracolo economico, moderna e competitiva. Se vogliamo che anche le Olimpiadi del 2020 segnino un successo altrettanto grande, è essenziale che anch’esse siano lo specchio di un’Italia nuova, che non guarda indietro ma avanti. Forse la chiave è proprio quella di utilizzare la nuova generazione di artisti e di architetti.

Architettonicamente c’è una capitale europea a cui si ispira?

Ce ne sono tante, ma “ispirazione” forse non è la parola più adatta. Parlando con i miei amici, mi capita spesso di dire che ammiro ad esempio Parigi o Londra; altrettanto spesso mi rispondono: “si, ma noi abbiamo il Colosseo e San Pietro, e Roma è la città più bella del mondo!”. Il punto è proprio qui: A che serve paragonare le architetture antiche a quelle contemporanee? Trovo che questo campanilismo sia una specie di stuzzicadenti dietro al quale tutti noi romani ci nascondiamo. È palese che il patrimonio culturale di Roma è praticamente ineguagliabile, purtroppo però la nostra città,

 

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