INTERVISTA SPECIALE EDILIZIA – CORRIERE DELLO SPORT
Come è nata l’idea di aprire uno studio come il Lad?
Abbiamo pensato (forse presuntuosamente o forse incoscientemente) di avere qualcosa da dire nel campo dell’architettura e del design, e dopo averlo pensato lo abbiamo messo in pratica. Infondo è stata questa la vera scommessa: puntare su noi stessi. Ora, guardandoci indietro, non credo che avremmo potuto fare diversamente, ma entrambi ci teniamo a sottolineare che la progettazione è prima di tutto una vocazione, e poi una professione; ci vogliono fortuna e grandissima abnegazione affinché diventi un lavoro.
Qual è secondo lei il punto di forza dello Studio?
Il nostro punto di forza è la concretezza. Le nostre idee hanno sempre alla base la comprensione di un meccanismo o di un problema di ordine economico, ambientale o sociale. L’architettura che ne deriva è per noi sempre la soluzione a questo problema o il tentativo di innescare un processo virtuoso, sia sotto il profilo dell’investimento sia dal punto di vista del suo esito architettonico. Non crediamo di essere demiurghi, crediamo di poter risolvere problemi e creare opportunità.
Quali sono le difficoltà e gli ostacoli più frequenti che si incontrano nella realizzazione di un nuovo progetto?
In Italia gli ostacoli più frequenti sono due: la burocrazia e la cattiva normativa.
Il momento progettuale invece è sempre un piacere, non è mai una difficoltà.
Come nasce l’idea di un nuovo progetto e come si sviluppa la fase di realizzazione?
Francesco Napolitano: Per quanto riguarda l’architettura, prima di ogni progetto c’è sempre una fase di brainstorming, un lavoro di gruppo che ha come fine l’individuazione dei punti focali sui quali la strategia progettuale deve insistere, e questo avviene attraverso la selezione di schemi il più possibile chiari e semplici. Subito dopo, il lavoro di gruppo lascia spazio alla riflessione individuale e solitaria, nella quale lo schema deve essere visualizzato e trasformato in una suggestione architettonica. Infine la terza ed ultima fase riguarda la trasformazione della visione in un disegno in scala, realistico e realizzabile.
Simone Lanaro: Nel design, negli interni e nell’arredamento, ma in fondo anche nell’architettura, un buon progetto è il risultato della combinazione di tre variabili: l’idea, il budget e la preesistenza. Allo stesso modo il risultato finale, e cioè la realizzazione, è la conseguenza di altri tre parametri: un buon progettista, un buon committente ed un buon costruttore.
Avete recentemente vinto il premio Vocazione Roma per il progetto del riuso del ponte Bailey? Com’è nata l’idea, in cosa consiste e soprattutto cosa significa per il vostro studio aver ricevuto un simile riconoscimento?
Francesco Napolitano: E’ nata per caso: per anni ho giocato a calcetto con i miei amici nei campi del circolo sportivo “Bailey”. Prima di iniziare la partita facevamo sempre un po’ di palleggi nel piazzale davanti al pilone nord (quello sul quale vorrei posare la piattaforma); ma non lo avevo mai notato perché giocavamo sempre di sera. Poi una volta il pallone è finito dietro alla staccionata e mi è toccato andarlo a riprendere vicino alla riva, così mi si è aperto davanti lo scenario dei tre appoggi orfani del loro ponte. Non ne sapevo niente, e sulle prime ho pensato che una simile assurdità potesse essere solo il risultato di una operazione edilizia dissennata: invece no! Il ponte una volta era lì per davvero! Così tornando a casa mi sono chiesto quale potesse essere un modo per rimediare a quella situazione, e ho disegnato la risposta su un pezzo di carta. La mattina dopo discutevo con Simone l’idea del Project Financing.
La nostra è un’idea per rimediare alla situazione di degrado dei piloni del ponte Bailey, che è sotto gli occhi di tutti coloro che a Roma percorrono via di Tor di Quinto, all’altezza della collina Fleming. Nel letto del fiume si ergono tre misteriosi piloni in calcestruzzo armato, che erano in realtà i supporti del vecchio ponte Bailey, smantellato negli anni sessanta.
La nostra idea prevede un accordo tra la pubblica amministrazione ed un finanziatore privato che sia pronto ad investire nella demolizione di due dei tre piloni. A fronte di questo sforzo, la pubblica amministrazione concede al privato di recuperare il terzo pilone e di riutilizzarlo, posandovi sopra una struttura removibile a sbalzo sul Tevere. Questa piattaforma è una vera e propria piazza pubblica in mezzo al fiume, accessibile a tutti e munita di una struttura polifunzionale coperta sul retro.
Al termine della concessione il Comune può decidere se rimuovere la struttura e quindi demolire anche il terzo pilone, o se rinnovare la concessione.
Così la pubblica amministrazione risolve una situazione di degrado urbano senza tirare fuori un euro, l’investitore costruisce e crea lavoro e quindi occupazione, e noi cittadini guadagniamo una piazza urbana a sbalzo sul Tevere, dalla quale vivere e vedere il fiume in modo diverso da tutti gli altri ponti.
Prima parlavamo della burocrazia: noi abbiamo depositato presso gli uffici della Regione Lazio una richiesta di concessione di beni demaniali e abbiamo allegato il nostro progetto. Purtroppo la richiesta non ha ancora avuto un un riscontro: l’ostacolo maggiore potrebbe proprio derivare dalle inevitabili lungaggini amministrative e burocratiche italiane. Comunque ci fa piacere constatare che venti giorni dopo aver vinto il premio Vocazione Roma, dopo tanti anni di silenzio sulla situazione di degrado dell’ex ponte Bailey, il Comune di Roma ha dato notizia (utilizzando tra l’altro una nostra fotografia) di voler indire un Project Financing per un progetto che riguarda una struttura sospesa sui tutti e tre i piloni, per un costo di 35 milioni di euro.
Questo tuttavia sarebbe un vero peccato, perché significherebbe perdere l’occasione di demolire i piloni centrali: la nostra idea prevede di liberare il letto del fiume dai piloni con un progetto più semplice, molto meno costoso e meno invadente.
Ciononostante rimaniamo fiduciosi nelle istituzioni, e non perdiamo la speranza di vedere un giorno risolta questa strana disfunzione ambientale ed urbana.
Quali materiali verranno utilizzati per la realizzazione del ponte e che importanza ha la scelta dei materiali nella concezione di un nuovo progetto?
Allo stato dell’arte abbiamo pensato ad una struttura in travi di acciaio. Ovviamente nessuno ci vieta, nel momento in cui dovessimo affrontare un livello di progettazione più dettagliato, di ripensarci e di usare il legno lamellare. Comunque direi che entrambi i materiali non pregiudicano la forma del progetto: la cosa veramente importante è mantenere una linea semplice e poco invadente.
Per quanto riguarda la “pelle” dell’architettura, i rivestimenti orizzontali e verticali sono in legno, acciaio e vetro.
Nello studio e nella realizzazione di un nuovo progetto quanto è importante l’idea del “soggetto” scelto e la creatività nella realizzazione dello stesso?
Il tema in realtà è secondario: lavoriamo sull’architettura e sul design, questo significa che dobbiamo saper affrontare allo stesso modo la progettazione del cucchiaio e della città. La creatività invece è centrale: anche se spesso si presenta sotto un aspetto giocoso e divertente, è importante tenerla in grande considerazione perché è ciò che distingue un progettista da un burocrate.
Come è nata l’idea di realizzare l’Olgiata Sporting Club?
Il progetto ricade nel Punto Verde Qualità 20.12, opera che rientra negli interventi promossi dal Comune di Roma che riguardano aree verdi insufficientemente attrezzate. Come mai la vostra scelta è ricaduta su un centro sportivo?
Fondamentalmente il progetto è nato dall’idea di inserire un servizio praticamente assente in zona, e corrisponde quindi ad una volontà di colmare una lacuna, anche dal punto di vista sociale.
Fra le funzioni compatibili nell’ambito dei Punti Verdi Qualità ci sono ovviamente anche gli impianti sportivi: l’idea dell’Olgiata Sporting Club deriva dalla conoscenza del territorio e dall’aver intuito che un centro sportivo, in quella posizione, avrebbe potuto usufruire di un grande bacino d’utenza. In assoluto, potremmo dire che, per quanto concerne il nostro modo di lavorare, la prima scintilla creativa non riguarda la forma architettonica, ma il modello di intervento e l’idea da proporre per innescare un congegno che funzioni anche e soprattutto al punto di vista socio-economico. L’architettura o il design vengono dopo, è come se fossero le strategie di un disegno più ampio, e infondo è bene che sia così, la progettazione è la cosa più bella, poetica e divertente con la quale avere a che fare.
Se le venisse data carta bianca per la realizzazione di un edifico a Roma, cosa farebbe e perché?
Francesco Napolitano: Demolirei due dei piloni dell’ex Ponte Bailey e costruirei sul terzo la mia piazza sospesa e lo farei perché ci credo davvero.
Quali i progetti futuri?
Abbiamo tante altre idee, ma abbiamo capito che ci conviene per il momento tenercele per noi, altrimenti le cambiano un po’, ci prendono le foto e le mettono a bando tra una settimana, com’è successo per il Progetto del Ponte Bailey!!!
Scherzi a parte, fra qualche mese inaugurerà il centro sportivo di Tor Sapienza, un progetto sul quale abbiamo investito molto.
Abbiamo deciso di utilizzare i mattone faccia vista, come materiale di rivestimento dei blocchi architettonici: speriamo davvero possa avere lo stesso successo dei precedenti progetti!
Come è nata la sua passione per questo lavoro?
Simone Lanaro: Non saprei dire come è nata, so solo che aumenta giorno per giorno.
Francesco Napolitano: Ricordo che una volta, da ragazzino, un amico che ammiravo e che ammiro tuttora moltissimo stava parlando con grande stima di un tale con il quale aveva avuto uno scambio di opinioni: “E’ una persona meravigliosa” mi diceva “sai… è un architetto”. In quel momento, forse per una specie di proprietà transitiva della stima, o forse per il desiderio di essere io stesso ammirato dal mio amico, pensai per la prima volta che sarei diventato un architetto. La passione per il lavoro e per la professione invece la devo alla mia esperienza in Olanda al T.U. Delft, un’università incredibile.
Qual è il progetto a cui è più legato e perché?
Siamo entrambi sentimentalmente legati allo “Stealth” ovvero l’Olgiata Shopping Plaza, che verrà pubblicato a Febbraio nel volume Linea Giarch curato dalla Utet, che raccoglie le opere dei giovani studi di architettura italiani emergenti. È stata la nostra prima vera realizzazione, e rimarrà la più emozionante.